Il Settore Vitivinicolo Italiano: Panoramica, Trend, Storia e Innovazione
Aprile 14, 2025
Settore Vitivinicolo Italiano: Panoramica, Trend, Storia e Innovazione
Panoramica della Produzione Vitivinicola Italiana Attuale
L’Italia occupa stabilmente il podio mondiale per produzione di vino, alternandosi spesso con Francia e Spagna al primo posto. Negli ultimi anni il primato italiano si è consolidato: nel 2022 la produzione nazionale è stata stimata in circa 53,7 milioni di ettolitri, in crescita del +5,6% rispetto all’anno precedente e nettamente superiore ai volumi di Francia e Spagna (entrambe attorno ai 40-45 milioni di hl). Nel 2021 la produzione era stata di circa 50 milioni di ettolitri, confermando dunque una tendenza recente di lieve aumento dopo annate più scarse. Questa imponente produzione fa sì che oltre il 45% del vino italiano sia destinato al consumo interno e circa il 43% venga esportato, mentre il restante viene utilizzato per usi industriali (aceti, distillati, ecc.). In altre parole, quasi metà del vino prodotto in Italia oggi trova sbocco sui mercati esteri, segno dell’internazionalizzazione crescente del settore.
A livello regionale, la viticoltura italiana presenta una grande eterogeneità, ma poche regioni producono la maggioranza del vino. La tabella seguente illustra i volumi 2022 delle principali regioni vinicole italiane:
Come si evince, Veneto e Puglia guidano la classifica delle regioni produttrici: il Veneto nel 2022 ha prodotto circa 12 milioni di hl, confermandosi al 1° posto nazionale, mentre la Puglia segue con 10,6 milioni hl. Insieme a Emilia-Romagna (7,4 mln) e Sicilia (4,3 mln), queste quattro regioni rappresentano circa 2/3 della produzione italiana. Altri territori di grande tradizione enologica contribuiscono con quote minori ma significative: ad esempio il Piemonte (circa 2,5 mln hl) e la Toscana (2,3 mln hl) producono ciascuno intorno al 4-5% del totale nazionale, seguiti da Abruzzo (~3,3 mln), Friuli-Venezia Giulia (~2,0 mln) e Trentino-Alto Adige (~1,36 mln). Regioni più piccole come Lombardia (1,05 mln) o Campania (0,7 mln) hanno volumi più ridotti, mentre realtà minoritarie come Molise, Basilicata, Liguria e Valle d’Aosta sommando poche centinaia di migliaia di ettolitri complessivi. In ogni caso tutte le 20 regioni italiane coltivano vigneti e producono vino, dal Valle d’Aosta alle isole, a testimonianza di una diffusione capillare della viticoltura.
Dal punto di vista quantitativo, il profilo produttivo italiano oscilla di anno in anno principalmente a causa dell’andamento climatico. Ad esempio, il 2021 fu un anno relativamente scarso (50,2 mln hl) a causa di gelate primaverili e siccità estiva in alcune zone, mentre il 2022 – pur caratterizzato da una siccità eccezionale in quasi tutto il Paese – ha beneficiato di piogge provvidenziali ad agosto che hanno migliorato le rese in molti vigneti. Ciò ha permesso un recupero produttivo in regioni come la Toscana (+12% sul 2021) e la Sardegna (+15%), compensando i cali registrati altrove (es. Lombardia -20%, Piemonte -9%). L’Italia si conferma così leader mondiale in volume, un risultato notevole considerando il contesto climatico sfavorevole e la contrazione produttiva di altri competitor globali nello stesso periodo.
In termini di superficie vitata, il vigneto Italia si estende per circa 674.000 ettari. Le zone con maggior estensione di vigneti corrispondono in buona parte alle regioni leader in produzione: Veneto (quasi 100.000 ettari), Puglia, Sicilia, Emilia-Romagna. Il tessuto produttivo è estremamente frammentato: si contano oltre 310.000 aziende viticole registrate, con una superficie media per azienda di appena ~2,2 ettari. Di queste, circa 46.000 sono aziende che vinificano in proprio (cioè producono vino dalle proprie uve), mentre molte altre conferiscono le uve ad impianti cooperativi o industriali. Le cantine sociali (cooperative) rivestono infatti un ruolo centrale: oltre la metà del vino italiano (circa il 55-58%) è elaborato da cooperative vitivinicole, spesso di grandi dimensioni, che raccolgono la produzione di migliaia di piccoli viticoltori. Ad esempio, in Veneto le cantine cooperative producono l’80% di alcune DOC importanti (Soave, Valpolicella), in Trentino dominano la spumantistica base, in Emilia-Romagna controllano gran parte della produzione di Lambrusco. Accanto alle coop, operano numerose aziende private, dalle grandi imprese note a livello internazionale ai piccoli produttori artigianali orientati alla qualità. Questa frammentazione è al contempo una ricchezza (diversità di offerta, radicamento territoriale) e una sfida (necessità di fare sistema per competere sui mercati globali).
Principali Trend di Mercato e Consumo del Vino Italiano
Consumi interni ed export: evoluzione recente
Il consumo interno di vino in Italia ha conosciuto un lungo declino durante il secondo Novecento – passando da oltre 100 litri pro capite annui negli anni ’60 a meno di 40 litri nei primi anni 2000 – a causa di cambiamenti socio-economici e di stile di vita (minor apporto calorico richiesto, maggiore attenzione alla salute, calo del lavoro manuale, leggi più severe su alcol e guida, ecc.). Tuttavia, nell’ultimo decennio questa tendenza si è stabilizzata e addirittura invertita: dal 2014 al 2019 i consumi nazionali sono tornati a crescere leggermente (+1,8% annuo medio), salvo subire una battuta d’arresto nel 2020 a causa della pandemia (chiusura di bar/ristoranti). Nel 2021 il consumo totale italiano è risalito a 23,2 milioni di ettolitri, pari a 39,2 litri pro capite, collocando l’Italia come 3° mercato mondiale per consumi interni (dopo Stati Uniti e Francia). Circa l’87% degli italiani tra 18 e 65 anni dichiara di aver consumato vino almeno una volta nell’ultimo anno – un dato che riflette la persistenza di una cultura del vino nel vivere quotidiano, sebbene con modalità diverse rispetto al passato (meno quantità e più qualità).
All’interno dei consumi domestici si è registrato anche uno spostamento nei canali di acquisto: attualmente circa il 73% del vino consumato in Italia viene acquistato attraverso il canale retail (GDO, enoteche, negozi) per il consumo in casa, mentre il 27% è consumato nel canale Ho.Re.Ca. (fuori casa: ristoranti, wine bar, eventi). La pandemia ha temporaneamente sbilanciato ulteriormente questa proporzione a favore dell’off-trade (nel 2020 il consumo fuori casa crollò quasi a zero), ma nel 2021-2022 la situazione si è normalizzata avvicinandosi ai valori pre-Covid. Resta strutturale tuttavia una maggiore attenzione del consumatore all’esperienza di consumo: cresce l’interesse per la degustazione consapevole, per abbinamenti cibo-vino, per la scoperta di etichette nuove, spesso a scapito dei volumi totali consumati. Il mercato interno mostra infatti una tendenza alla premiumizzazione: si beve un po’ meno in quantità, ma mediamente vini di fascia più alta. Questo è evidente anche nei dati di vendita: nella GDO italiana 2021 le vendite a valore di vino sono cresciute (+5%) più dei volumi, segno di un aumento del prezzo medio per bottiglia acquistata.
Parallelamente, il mercato estero del vino italiano è in forte ascesa da almeno 15 anni. Le esportazioni di vino tricolore hanno toccato nel 2022 un nuovo record storico: circa 7,9 miliardi di euro di valore (+9,8% rispetto al 2021), corrispondenti a circa 22-23 milioni di ettolitri esportati. Già nel 2021 si erano raggiunti 7,11 miliardi € con 22,2 milioni hl, a conferma di un trend di crescita costante (basti pensare che nel 2010 l’export valeva ~4 miliardi, nel 2000 circa 2,5 miliardi). L’Italia oggi esporta circa il 14% dell’export agroalimentare nazionale in valore sotto forma di vino, a indicare il peso strategico di questo prodotto nel Made in Italy. I principali mercati di destinazione del vino italiano (per valore) sono:
Gli Stati Uniti si confermano il partner n.1 in assoluto per i vini italiani, assorbendo da soli circa il 25% del valore dell’export (quasi 1 bottiglia su 4 venduta all’estero finisce sul mercato USA). Seguono con distacco la Germania (tradizionalmente primo mercato UE per i nostri vini) e il Regno Unito, quindi Svizzera, Canada e altri paesi europei. Negli ultimi anni stanno crescendo anche mercati emergenti come Cina, Giappone, Russia (nonostante le recenti difficoltà geopolitiche) e soprattutto i mercati secondari del Sud-Est asiatico e dell’America Latina. La spinta export è stata favorita dai fondi pubblici per la promozione (vedi oltre “OCM Vino – Promozione”), ma soprattutto dalla capacità delle cantine italiane di intercettare gusti diversi e nuovi trend globali, diversificando l’offerta: dall’intramontabile Prosecco che spopola in UK, USA e ora anche in Asia, ai rossi classici (Chianti, Barolo, SuperTuscan) molto apprezzati nei mercati maturi, fino a proposte di nicchia che attirano segmenti specifici di consumatori all’estero (vini biologici, orange wines, vitigni rari). Il risultato complessivo è che il vino italiano ha dimezzato il gap in valore rispetto al francese sul mercato mondiale nell’ultimo decennio, pur restando la Francia davanti in termini di introiti (grazie a Champagne, Bordeaux e Borgogna di lusso). L’Italia però primeggia a volume e compete sempre più anche sul valore, segno di un miglioramento dell’immagine e della qualità percepita dei nostri prodotti all’estero.
Nuove tendenze: bio, sostenibilità, natural e low-alcohol
Oltre ai dati quantitativi, il mercato del vino è in evoluzione anche nei gusti e preferenze dei consumatori. Negli ultimi anni si registrano alcuni trend di fondo importanti anche per il vino italiano:
Crescita dei vini biologici e sostenibili: l’Italia è leader in Europa per superficie vitata biologica, con circa 17-19% dei vigneti italiani coltivati in bio (contro una media UE del 12%). Questo significa oltre 110.000 ettari convertiti al biologico, un dato in forte aumento (+119% dal 2010 al 2020 a livello europeo). La spinta verso pratiche sostenibili coinvolge sia la vigna (uso ridotto di chimica, biodiversità, viticoltura integrata) sia la cantina (energie rinnovabili, riduzione solfiti, packaging ecologico). Dal lato consumi, c’è un interesse crescente per il vino biologico: nel 2022 il 51% dei consumatori italiani dichiarava di aver acquistato vino bio almeno una volta, mentre era appena il 2% nel 2013 – un balzo notevole. Tuttavia il vino biologico rappresenta ancora una quota piccola del mercato interno (circa 1,7% delle vendite totali di vino nella GDO nel 2021), segno che c’è ancora molto potenziale inespresso. All’estero invece il vino bio italiano è molto apprezzato, specie in mercati attenti all’eco-sostenibilità come Germania, Scandinavia e USA. Le prospettive indicano che la richiesta di vini certificati bio è destinata a crescere ulteriormente, man mano che aumentano la consapevolezza ambientale e la disponibilità di etichette bio di qualità. Va notato che alla ricerca di sostenibilità si affiancano altri schemi come i vini biodinamici o i vini con certificazioni di sostenibilità integrata, che pur non essendo bio formalmente, seguono protocolli green (es. VIVA, Equalitas in Italia).
Affermarsi dei vini “naturali” e artigianali: parallela alla tendenza bio è l’onda dei vini naturali, termine non ufficiale ma generalmente riferito a vini ottenuti con minimo intervento sia in vigna sia in cantina (nessun additivo o manipolazione enologica, fermentazioni spontanee, niente filtrazioni o chiarifiche spinte, solfiti molto ridotti). L’Italia è uno dei paesi protagonisti di questo movimento: fiere specializzate come Vinnatur o Live Wine richiamano migliaia di appassionati, e molte piccole cantine si sono convertite a pratiche “naturali” per intercettare una nicchia di mercato in crescita internazionale. Pur restando un segmento di nicchia (difficile da quantificare, ma qualche punto percentuale del mercato al massimo), i vini naturali hanno esercitato un impatto culturale forte, spingendo anche produttori convenzionali a maggiore trasparenza e autenticità. Sul mercato interno italiano, i vini “non convenzionali” trovano spazio soprattutto nei wine bar urbani e nell’alta ristorazione, attraendo in particolare i giovani consumatori alla ricerca di esperienze diverse. Si tratta quindi di un trend più qualitativo che quantitativo, ma che contribuisce a rinnovare l’immagine del vino italiano rendendola più dinamica e contemporanea.
Bollicine e rosati in ascesa, i rossi tradizionali in lieve calo: dal punto di vista delle tipologie di prodotto, i dati recenti evidenziano mutamenti nelle preferenze. I vini spumanti trainano la crescita: l’export di spumanti italiani (Prosecco in primis) è aumentato a doppia cifra ogni anno, tanto che nel 2021 l’Italia ha esportato 33% di tutti gli spumanti venduti al mondo, superando persino la Francia in volume. Sul mercato interno, le bollicine italiane hanno superato lo Champagne nelle scelte dei consumatori, complici il miglior rapporto qualità-prezzo e la versatilità di consumo. Anche i vini rosati vivono un momento di nuova popolarità, con crescite sia in GDO sia nell’e-commerce, grazie a mode internazionali (trend del rosé estivo) che si riflettono anche in Italia. Al contrario, i vini rossi fermi, pur restando la colonna portante del consumo nazionale, mostrano segnali di flessione o stagnazione nelle vendite, soprattutto per i rossi di fascia più bassa. I consumatori più giovani tendono a preferire vini più leggeri, freschi e immediati (bianchi aromatici, rosé, sparkling) rispetto ai rossi tannici e strutturati. Questo non intacca il prestigio dei grandi rossi italiani, ma costringe il comparto a innovare nell’offerta, proponendo ad esempio rossi più beverini, o puntando su vitigni autoctoni riscoperti che offrono profili aromatici originali.
Salute e tendenza low-alcohol: infine, un trend trasversale nell’universo beverage riguarda la ricerca di bevande a basso tenore alcolico o senza alcol. Anche il vino è toccato da questa tendenza “health conscious”. Tradizionalmente il vino italiano ha gradazioni medio-alte (12-14% vol), anzi negli ultimi decenni complici climi più caldi molti vini hanno aumentato l’alcol. Tuttavia, sta emergendo un mercato per vini dealcolizzati o a ridotto contenuto alcolico: l’UE ha autorizzato dal 2021 la produzione di vini dealcolati (<=0,5% vol) o parzialmente dealcolati (max 5,5% vol) anche con denominazione, e nel 2023 l’Italia ha emanato il primo decreto attuativo in materia. Nel mondo, il settore dei vini zero-alcol è in forte crescita (+10% annuo atteso fino al 2033) e già vale oltre 2 miliardi di dollari. In Italia siamo agli inizi, ma l’interesse è elevato soprattutto tra i Millennials e la Gen Z. Nel 2023 le vendite di vini italiani senza alcol sono aumentate del +33% in volume sul 2022 (39% in valore), raggiungendo comunque solo circa 62 milioni $ in valore totale – dunque un settore ancora di nicchia. L’offerta si sta arricchendo: compaiono in commercio spumanti zero-alcol e versioni “light” di vini noti. I produttori iniziano a vedere questi prodotti non come un tabù, ma come un’opportunità per conquistare segmenti di pubblico che altrimenti non consumerebbero vino (astemi per scelta salutista, religione, gravidanza, ecc.) . Anche le bevande aromatizzate a base vino a bassa gradazione (spritz pronti, cocktail wine-based) stanno incontrando il favore di un pubblico giovane. Complessivamente, l’attenzione alla salute sta spingendo sia la moderazione nei consumi tradizionali sia la sperimentazione di prodotti innovativi a minor impatto alcolico.
In sintesi, il mercato vitivinicolo italiano contemporaneo è caratterizzato da un lato dalla solidità dei consumi tradizionali – con il vino saldo nelle abitudini degli italiani e una domanda internazionale vivace – dall’altro da cambiamenti nelle preferenze che premiano sostenibilità, qualità, novità e moderazione. I produttori italiani stanno rispondendo diversificando la produzione: accanto ai vini classici, crescono linee bio, edizioni limitate “naturali”, spumanti e rosati trendy, fino ai primi esperimenti di vino analcolico. Questa capacità di adattamento sarà fondamentale per allargare la base dei consumatori (soprattutto tra i giovani) e mantenere la competitività del vino Made in Italy nel mondo.
Evoluzione Storica della Viticoltura Italiana: dalle Origini ai Giorni Nostri
La storia vitivinicola italiana ha origini antichissime e si intreccia con la storia stessa della penisola. La vite era presente in Italia già in epoca pre-romana: Etruschi, Greci e antiche popolazioni italiche coltivavano uva e producevano vino ben prima dell’ascesa di Roma. In particolare, attorno all’VIII secolo a.C. i coloni greci introdussero la viticoltura intensiva nel Sud Italia (Enotria e Magna Grecia), mentre gli Etruschi praticavano la vitivinicoltura in Etruria e nella Pianura Padana. Fu però con l’Impero Romano che la cultura del vino conobbe la sua prima grande espansione: i Romani appresero dai popoli conquistati le tecniche enologiche e le diffusero in tutto il territorio imperiale . Le legioni piantarono viti in Gallia, Hispania, lungo il Reno e il Danubio, contribuendo a fare del vino una bevanda comune in tutta Europa. Già in età repubblicana e imperiale alcuni vini della penisola godevano di fama (ad es. il Falerno campano, celebrato da Plinio e Marziale). Roma sviluppò anche prime forme di regolazione: editti per vietare nuovi impianti quando c’era sovrapproduzione, o per limitare il consumo smodato.
Con la caduta dell’Impero e le invasioni barbariche, la viticoltura conobbe un periodo difficile, ma nel Medioevo la coltura della vite sopravvisse grazie soprattutto ai monasteri. I monaci benedettini e cistercensi conservarono le conoscenze enologiche producendo vino per la Messa e per l’ospitalità, mantenendo vive le pratiche viticole nei conventi e nelle abbazie . In questo periodo il vino era importante anche come fonte calorica e alternativa all’acqua spesso impura. La qualità tuttavia era mediamente bassa e la produzione orientata all’autoconsumo locale.
Dal Rinascimento in avanti, con la stabilizzazione politica di molte signorie e stati regionali, il vino riacquistò importanza anche commerciale. In alcune zone si iniziarono a delineare tradizioni vinicole più raffinate: ad esempio in Toscana nel Settecento il bando del granduca Cosimo III de’ Medici (1716) delimitò per la prima volta le zone del Chianti, Pomino, Carmignano e Val d’Arno di Sopra, proteggendo i “vini di pregio” toscani ante litteram. Nell’Ottocento il barone Bettino Ricasoli codificò la ricetta del Chianti Classico (misto di Sangiovese e altri vitigni) , mentre in Piemonte i Marchesi di Barolo e di Cavour, con l’enologo francese Oudart, applicarono tecniche enologiche d’Oltralpe per vinificare in secco il Nebbiolo, dando nascita al Barolo moderno . Sono esempi delle prime innovazioni qualitative dopo secoli di produzioni piuttosto rustiche. Nel frattempo, tra XVIII e XIX secolo, la viticoltura si espandeva anche in aree collinari e prealpine prima marginali, e l’enologia compiva passi avanti grazie ai progressi scientifici (in Francia Pasteur spiegò la fermentazione, si diffusero bottiglia e tappo in sughero, ecc.).
Una crisi epocale arrivò alla fine del XIX secolo con la comparsa della fillossera: intorno al 1875-1890 questo insetto parassita, originario delle Americhe, attaccò le radici delle viti europee provocando la morte di gran parte dei vigneti dal Piemonte alla Sicilia . La viticoltura italiana (come quella di tutta Europa) fu devastata; molti contadini emigrarono o si convertirono ad altre colture. La soluzione fu trovata innestando le viti europee (Vitis vinifera) su radici di viti americane resistenti (Vitis labrusca), pratica che tra fine Ottocento e inizi Novecento permise una lenta ricostituzione dei vigneti . In quegli stessi anni giunsero in rapida successione altre calamità: l’oidio, la peronospora, ma si imparò a contenerle con zolfo e rame. Entro il 1905-1910 la viticoltura italiana risorse sulle nuove basi, sebbene con un patrimonio varietale e clonale in parte diverso dal passato.
Il Novecento vide una forte espansione produttiva ma anche la sfida di migliorare la qualità. Nel secondo dopoguerra, l’Italia puntò molto sul vino come prodotto di massa da esportare (ricordiamo il boom del Chianti in fiasco negli anni ’60, o dei vini da taglio verso la Francia). La produzione raggiunse picchi storici (85 milioni di hl nel 1980), spesso eccedendo la domanda interna. Ciò portò a fenomeni distorsivi e problemi di qualità: emblematico fu lo scandalo del vino al metanolo del 1986, che scosse profondamente la credibilità del vino italiano. Già da qualche decennio però lo Stato aveva avviato politiche per tutelare e migliorare i vini tipici: le prime leggi organiche sulla viticoltura risalgono al 1924 (tutela dei vini tipici) e al 1963, con l’introduzione delle DOC (Denominazioni di Origine Controllata) sul modello francese . Nel 1963 nacquero le DOC e DOCG per identificare e garantire i vini legati a un territorio specifico e con determinate caratteristiche qualitative. Negli anni ’70-’80, grazie anche a queste normative, iniziò la “rinascita” del vino italiano: molti produttori investirono in cantina, adottarono rese più basse in vigna, sperimentarono vitigni internazionali (nascono i Super Tuscan in Toscana) e tecniche moderne.
Dagli anni ’90 in poi, con la legge 164/1992 che riformò il sistema delle denominazioni , l’enologia italiana ha conosciuto un continuo percorso di qualificazione. La nascita di numerose DOCG per i vini più prestigiosi, l’adeguamento agli standard UE, la creazione di consorzi di tutela, l’affermarsi di enologi di fama internazionale e il successo sui mercati esteri hanno trasformato l’Italia da produttore di grandi quantità di vino economico a leader nei vini di qualità/prezzo. L’adesione all’UE e l’OCM vino (dal 2008 in particolare) hanno orientato il settore verso un equilibrio migliore tra quantità e qualità, finanziando la riconversione dei vigneti e la promozione. Oggi il patrimonio vitivinicolo italiano è ricchissimo: accanto alle grandi denominazioni classiche (Barolo, Brunello, Amarone, Chianti Classico, etc.) resistono tradizioni locali secolari, e al tempo stesso nuove regioni e nuovi stili sono emersi (es. boom del Prosecco da fine anni ’90, riscoperta di vitigni autoctoni minori, ecc.). La storia millenaria prosegue nell’era moderna con un settore in equilibrio tra tradizione e innovazione, consapevole delle proprie radici antiche ma anche pronto ad affrontare le sfide future.
La Filiera Vitivinicola Italiana: dalla Vigna al Consumatore
Il sistema produttivo del vino in Italia può essere immaginato come una filiera articolata in più segmenti, ciascuno con specificità ma strettamente interconnesso con gli altri. Dalla coltivazione dell’uva alla trasformazione in vino, fino alla distribuzione e commercializzazione, ogni fase riveste un ruolo cruciale nel determinare il successo del prodotto finale. Di seguito descriviamo le principali fasi della filiera vitivinicola italiana.
Viticoltura (coltivazione della vite): tutto parte dal vigneto. L’Italia conta migliaia di vignaioli, spesso piccole aziende familiari che tramandano da generazioni conoscenze sul proprio territorio. La fase colturale comprende impianto dei vigneti (scelta del vitigno e del portainnesto, sesto d’impianto), cure annuali (potature invernali ed estive, gestione del suolo, difesa da parassiti e malattie, irrigazione se necessaria) e infine la vendemmia. Quest’ultima avviene in periodi diversi a seconda delle regioni e delle varietà: si va da fine luglio-inizio agosto per alcune basi spumante nel Sud, fino a ottobre inoltrato per uve tardive in climi freschi (ad es. Nebbiolo in Valtellina). La raccolta può essere manuale (ancora diffusa per vini di qualità e in zone collinari impervie) o meccanica con vendemmiatrici automatiche (molto usata in pianura per uve da vino sfuso). La qualità dell’uva è fondamentale: la filiera italiana negli ultimi decenni ha fatto enormi progressi nel migliorare la materia prima, riducendo le rese per ceppo e puntando alla maturazione ottimale. Aspetti come la tracciabilità delle uve, la selezione dei grappoli (talvolta in campo si effettua un diradamento verde per concentrare la qualità) e la sanità perfetta delle uve raccolte sono oggi prioritari per moltissimi produttori, soprattutto nelle denominazioni più pregiate.
Trasformazione in cantina (vinificazione e affinamento): le uve raccolte vengono trasportate in cantina, dove avviene la pigiatura e la fermentazione del mosto in vino. In Italia esistono oltre 46.000 cantine che effettuano vinificazione, con dimensioni variabili: dalle grandi aziende che trasformano milioni di quintali di uva (spesso coop o industrie) alle micro-cantine artigianali. La fase di vinificazione varia a seconda del tipo di vino da ottenere: vinificazione in rosso con macerazione sulle bucce per i rossi, in bianco senza bucce per bianchi e rosati, metodi speciali come il Metodo Classico per spumanti (presa di spuma in bottiglia) o il passito per alcuni vini dolci (uve appassite prima della fermentazione). La tecnologia enologica italiana è all’avanguardia: molte cantine sono dotate di serbatoi in acciaio a temperatura controllata, presse soffici, fermentatori Ganimede, barrique francesi e botti di rovere per l’affinamento. Dopo la fermentazione alcolica (e malolattica per i rossi), il vino giovane viene stabilizzato, chiarificato e avviato all’affinamento. A seconda dei casi potrà maturare mesi o anni in acciaio, cemento, legno o bottiglia, per sviluppare aromi e complessità. In questa fase molte aziende italiane sfruttano un mix di tecnologia moderna e pratiche tradizionali: ad esempio l’uso di botti grandi di rovere di Slavonia per certi rossi tipici, oppure l’impiego di tini in cemento vetrificato accanto all’acciaio inox. La cura nella trasformazione è essenziale per valorizzare il potenziale delle uve: errori in cantina possono compromettere un intero anno di lavoro in vigna, pertanto anche i piccoli produttori investono sempre più in consulenze enologiche qualificate e attrezzature.
Imbottigliamento e confezionamento: una volta pronto, il vino viene confezionato per la vendita. L’imbottigliamento è un passaggio delicato che richiede condizioni igieniche ottimali e spesso l’aggiunta di una minima dose di solfiti per garantirne la conservazione. Gran parte del vino italiano di qualità è venduto in bottiglia di vetro (di vari formati: 0,75 L standard, ma anche mezze bottiglie, magnum 1,5 L, bag-in-box per alcuni vini da tavola, ecc.). Le cantine sociali e industriali vendono anche vino sfuso destinato al re-imballaggio (cisternette, autobotti per export in bulk) o al consumo locale alla spina. Il packaging sta evolvendo: accanto al vetro tradizionale, si sperimentano tappi alternativi (sintetici, a vite), lattine per alcuni vini frizzanti giovanili, brik e altri contenitori sostenibili per ridurre l’impronta carbonio. L’etichettatura deve rispettare le normative (indicazione denominazione, grado alcolico, annata, allergeni, ecc.) e diventa sempre più uno strumento di marketing per comunicare la storia e la qualità del prodotto.
Distribuzione commerciale: una volta confezionato, il vino entra nel circuito distributivo. In Italia, la distribuzione è frammentata: circa il 50-60% del vino imbottigliato per il mercato interno passa attraverso la GDO (supermercati, ipermercati), soprattutto per vini di fascia economica e media. Un altro canale importante sono le enoteche e i rivenditori specializzati, che trattano etichette di pregio e consigliano la clientela; esistono catene di enoteche ma anche molti negozi indipendenti. Il canale Ho.Re.Ca. (Hotel, Ristoranti, Catering) assorbe gran parte dei vini di fascia medio-alta per il consumo sul posto: qui la ricarica di prezzo è elevata ma il vino viene veicolato con il servizio e l’abbinamento gastronomico, contribuendo a costruirne la reputazione. Negli ultimi anni è esploso il canale e-commerce: piattaforme specializzate (Tannico, Vino.com, Callmewine, ecc.) e servizi di delivery locale (es. Winelivery) movimentano volumi crescenti, soprattutto su etichette di nicchia o per raggiungere consumatori in aree scoperte. L’e-commerce del vino in Italia ha avuto un boom nel 2020 (+120% degli acquisti online durante il lockdown) e, pur assestandosi dopo la pandemia, rappresenta ormai una quota stabile del mercato e una opportunità per piccole cantine di vendere direttamente al consumatore finale. Sul fronte export, la distribuzione avviene tramite importatori, distributori e agenti nei vari paesi: i produttori italiani partecipano a fiere internazionali (Vinitaly, Prowein, etc.) e missioni promozionali per stringere accordi con partner esteri. Spesso i consorzi di tutela o associazioni export organizzano collettive per presentare insieme più cantine di un territorio ai buyer stranieri, ottimizzando i costi. Esistono anche cantine molto strutturate che hanno filiali o proprie reti distributive in mercati chiave (soprattutto grandi gruppi del vino).
Marketing ed enoturismo: trasversalmente alla filiera produttiva, assumono crescente importanza le attività di marketing, comunicazione e turismo del vino. Le aziende investono in branding, storytelling, partecipazione a guide e concorsi, presenza sui social media e collaborazione con sommelier e influencer del settore. L’enoturismo merita menzione: l’Italia, con i suoi paesaggi viticoli unici (Langhe, Chianti, Valdobbiadene, Etna, etc.), attrae ogni anno milioni di visitatori nelle cantine. Molti produttori hanno aperto agriturismi, wine resort o semplici sale di degustazione per accogliere appassionati, creando una fonte di reddito aggiuntiva e rafforzando il legame tra vino e territorio. Nel 2019 il turismo enogastronomico in Italia valeva oltre 2,5 miliardi di euro, con il vino come protagonista principale. Fare sistema con ristorazione e ospitalità è quindi parte integrante della filiera odierna: non si vende solo il vino come prodotto, ma un’esperienza culturale e sensoriale legata ad esso.
In conclusione, la filiera vitivinicola italiana è un mosaico complesso: parte in vigna, cuore pulsante legato alle stagioni e alla terra; passa per la cantina, dove la tecnologia si unisce alla sensibilità artigianale; e arriva al mercato, dove logistica, commercio e narrazione costruiscono il successo commerciale. La forza di questa filiera sta nella diversità e nel radicamento territoriale, ma non mancano le criticità: frammentazione produttiva, costi logistici elevati per i piccoli, difficoltà di penetrazione unitaria sui mercati esteri. Tuttavia, attraverso cooperative efficienti, consorzi e nuove forme di aggregazione (es. reti di impresa, accordi di filiera), il settore sta cercando di ottimizzare ogni anello della catena, per portare al consumatore finale un prodotto eccellente al giusto prezzo, remunerando adeguatamente tutti gli attori coinvolti.
Vitigni Autoctoni e Denominazioni: il Patrimonio Unico del Vino Italiano
Uno dei tratti distintivi del settore vitivinicolo italiano è l’immenso patrimonio di vitigni autoctoni e il robusto sistema di denominazioni di origine che tutela e valorizza le produzioni territoriali. Questi due aspetti – vitigni e denominazioni – sono strettamente legati e meritano un focus approfondito.
I vitigni autoctoni italiani
L’Italia vanta probabilmente la maggiore diversità ampelografica al mondo: si stima che siano coltivati oltre 500 varietà di uva da vino sul territorio nazionale, la gran parte delle quali sono vitigni autoctoni, ossia originari o comunque sviluppatisi storicamente in loco . Nessun altro paese possiede un tale numero di uve indigene in coltivazione. Ogni regione italiana ha le sue varietà tradizionali, spesso legate a micro-territori specifici e talvolta poco conosciute al di fuori di essi. Questo mosaico genetico permette la produzione di una gamma vastissima di vini, con caratteristiche organolettiche uniche e non riproducibili altrove.
Tra i vitigni autoctoni più importanti e diffusi possiamo citare: il Sangiovese, emblema dell’Italia centrale, che da solo copre l’11% circa della superficie vitata nazionale ed è l’anima di vini celebri come Chianti, Brunello di Montalcino, Nobile di Montepulciano e molti altri ; il Nebbiolo, fiore all’occhiello del Piemonte, da cui nascono i rinomati Barolo e Barbaresco, apprezzati per struttura e longevità ; il Montepulciano (da non confondere con l’omonimo vino toscano), ampiamente coltivato in Abruzzo e Marche per robusti rossi come il Montepulciano d’Abruzzo; il Nero d’Avola, pilastro della Sicilia enologica, dal carattere solare e speziato ; l’Aglianico, nobile uva del Sud (Campania e Basilicata) da cui si ottengono rossi di grande finezza come il Taurasi e l’Aglianico del Vulture; il Primitivo di Puglia, riscoperto negli ultimi decenni e oggi protagonista di vini intensi come il Primitivo di Manduria . Sul fronte dei bianchi, abbiamo il versatile Trebbiano (in più varianti locali, base di tanti bianchi dal Lazio all’Emilia), l’Arneis e il Cortese in Piemonte, il Verdicchio nelle Marche, il Fiano e il Greco in Campania, la Garganega in Veneto (uva del Soave) e così via.
Accanto a questi “big”, esiste una miriade di vitigni minori che arricchiscono la produzione con tipicità uniche: ad esempio il Vermentino coltivato in Sardegna e Liguria (bianco aromatico mediterraneo), il Lagrein e la Schiava in Alto Adige, il Refosco in Friuli, il Pecorino e la Passerina in Centro Italia, il Carricante e il Nerello Mascalese sulle pendici dell’Etna, il Sagrantino umbro, il Pignoletto emiliano, e centinaia di altri. Molti di questi erano a rischio estinzione ma sono stati recuperati grazie alla passione di piccoli produttori e a progetti di tutela della biodiversità viticola. Oggi l’unicità dei vitigni autoctoni è diventata un fattore di marketing: proporre un vino da uva autoctona introvabile altrove dà un vantaggio competitivo di differenziazione sui mercati globali saturi di Cabernet, Merlot e Chardonnay internazionali.
Detto questo, anche i vitigni internazionali trovano spazio in Italia: uve come Cabernet Sauvignon, Merlot, Syrah, Chardonnay, Sauvignon, Pinot Nero, introdotte storicamente da francesi e austriaci in varie epoche, sono coltivate soprattutto in blend con autoctoni per arricchire tagli bordolesi in Toscana, Veneto, Trentino ecc. oppure in purezza per vini innovativi. La grande maggioranza dei vini italiani comunque ha alla base uno o più vitigni nostrani. Il successo internazionale di vini come il Barolo (Nebbiolo), l’Amarone (Corvina/Rondinella), il Brunello (Sangiovese), il Primitivo di Manduria, il Fiano di Avellino, il Cannonau di Sardegna – tutti esempi di autoctoni al 100% – dimostra che puntare sull’identità territoriale paga. I vitigni autoctoni sono intimamente legati al concetto di “terroir”: essi si sono adattati nel corso dei secoli al clima e al suolo di specifiche zone, dando vita a vini che “raccontano” quel territorio in modo autentico.
Denominazioni DOP, DOCG, DOC e IGT
Parallelamente alla ricchezza ampelografica, l’Italia ha sviluppato un articolato sistema di denominazioni di origine a tutela della tipicità e qualità dei propri vini. Questo sistema, nato con la legge del 1963 e poi aggiornato fino a recepire la normativa UE, si compone di diverse sigle:
DOCG – Denominazione di Origine Controllata e Garantita: è il livello più alto di classificazione qualitativa. Identifica vini di particolarissima pregio, legati a zone storicamente vocate e soggetti ai disciplinari più rigidi. I vini DOCG devono superare severi controlli analitici e organolettici prima della commercializzazione (assaggio da commissione qualificata, fascette di Stato numerate sulle bottiglie). Esempi famosi di DOCG sono Barolo, Barbaresco, Brunello di Montalcino, Chianti Classico, Amarone della Valpolicella, Asti spumante, solo per citarne alcuni . Attualmente l’Italia conta 74 DOCG riconosciute, concentrate soprattutto in Piemonte, Toscana, Veneto e Lombardia.
DOC – Denominazione di Origine Controllata: identifica vini di qualità e tipicità legati a territori più o meno estesi, con disciplinari che definiscono vitigni ammessi, rese massime, gradazione minima, aree di produzione e altri parametri. Le DOC sono una sorta di “patente di origine” che garantisce al consumatore l’autenticità geografica del vino. Nate nel 1963 in numero di 19, le DOC sono cresciute fino alle attuali 334 DOC attive su tutto il territorio nazionale. Esse coprono una gamma vastissima di vini, dai più quotidiani (es. DOC Orvieto, DOC Montepulciano d’Abruzzo) ai più prestigiosi (DOC Bolgheri Sassicaia, DOC Etna, ecc.). Molte DOC sono step intermedi che possono aspirare a diventare DOCG dopo anni di riconosciuta qualità.
IGT – Indicazione Geografica Tipica: è una categoria introdotta nel 1992 (in recepimento di regolamenti UE) per dare spazio a vini di taglio più libero ma comunque legati a un’area geografica. I vini IGT indicano in etichetta la regione o zona di provenienza (es. Toscana IGT, Terre Siciliane IGT, Veneto IGT) e rispettano requisiti più flessibili rispetto a DOC/DOCG: possono usare vitigni internazionali, tecniche diverse, assemblaggi non previsti dai disciplinari tradizionali . L’IGT ha permesso di ufficializzare molti vini di qualità che non rientravano nelle DOC (famoso il caso dei Super Tuscan come Tignanello o Sassicaia, lanciati come “Vini da tavola” fuori DOC e poi transitati in IGT/Bolgheri DOC). Attualmente vi sono 118 IGT in Italia. Molte corrispondono a intere regioni (IGT Toscana, IGT Puglia…) e fungono anche da valvola di sfogo per eccedenze o per sperimentazioni dei produttori.
Secondo gli ultimi dati ufficiali, in totale l’Italia conta 526 denominazioni di origine attive: 408 tra DOCG e DOC (che rientrano nell’accezione europea di DOP, Denominazioni di Origine Protette) e 118 IGT (equivalenti alle IGP europee per il settore vino). Si tratta del numero più elevato al mondo, a testimoniare la varietà territoriale del nostro Paese. Il sistema delle denominazioni è uno strumento fondamentale per ancorare la produzione al territorio e dare garanzie di qualità al consumatore. Ogni disciplinare stabilisce confini della zona di produzione, vitigni utilizzabili, pratiche enologiche consentite, gradazioni minime, rese massime per ettaro, periodi di invecchiamento obbligatori (per riserve, superiore, classico, ecc.), caratteristiche chimico-fisiche e organolettiche del vino finito e altre norme specifiche. Ad esempio, per produrre un Barolo DOCG l’uva deve essere Nebbiolo al 100% coltivato in 11 comuni delle Langhe, la resa max è 80 q/ha, il vino deve affinare almeno 38 mesi (di cui 18 in legno) e avere almeno 13% vol alcol; solo se tutte queste condizioni (e altre) sono rispettate potrà fregiarsi della denominazione in etichetta. Simili paletti esistono per ogni DOP, con ovvie differenze secondo tradizione (es. un Chianti Classico DOCG deve essere min 80% Sangiovese, può includere altre uve max 20%, ecc.).
È importante sottolineare che le denominazioni non sono solo burocrazia, ma riflettono spesso storie e culture locali radicate nei secoli. In molti casi coincidono con antiche usanze produttive (esempio: la menzione “Classico” indica la sottozona originaria storica di certe DOC estese, come Soave Classico, dove la viticoltura di pregio si fa da sempre). Inoltre, la denominazione crea valore economico: le bottiglie DOP/DOCG riescono a spuntare prezzi superiori, grazie alla reputazione costruita dal nome geografico. Non a caso, denominazioni celebri come Barolo, Brunello, Bolgheri, Amarone, Franciacorta hanno un fortissimo richiamo commerciale globale.
Il sistema italiano, con la riforma del 2010, si è armonizzato a quello UE: oggi tutte le DOC e DOCG rientrano nella categoria generale DOP (Denominazione di Origine Protetta), mentre le IGT rientrano nelle IGP (Indicazione Geografica Protetta). In etichetta però i produttori continuano ad usare le sigle tradizionali italiane DOCG/DOC/IGT, più comprensibili per il pubblico. Va citato anche il vino “Varietale” senza DO: è possibile commercializzare vini indicando solo l’annata e il vitigno se internazionali (es. Cabernet Sauvignon Veneto 2020), fuori dalle denominazioni, ma rappresentano una quota minoritaria in Italia.
In definitiva, l’Italia ha costruito un solido impalcato normativo a difesa dei suoi vini, che garantisce tracciabilità e autenticità dal vigneto alla bottiglia. Le denominazioni non sono immobili: periodicamente vengono modificate, ampliate o create ex novo denominazioni per seguire l’evoluzione del settore. Ad esempio, negli ultimi anni sono nate DOC specifiche per zone emergenti (es. DOC Etna in Sicilia, che ha valorizzato i vini del vulcano) o sono state riconosciute nuove DOCG per vini prima DOC (es. Roma DOC nel Lazio, Terre Alfieri DOCG in Piemonte nel 2020). Il fine ultimo è preservare il connubio inscindibile tra vino e territorio, che è la vera forza competitiva dell’Italia enologica: poter offrire centinaia di vini diversi, ciascuno specchio di una terra, di un microclima, di una tradizione produttiva e – perché no – di un vitigno autoctono unico.
Innovazione e Digitalizzazione nel Settore Vitivinicolo
Pur essendo un comparto fortemente legato alla tradizione, il settore vitivinicolo italiano negli ultimi anni sta abbracciando con decisione le nuove tecnologie e la digitalizzazione, riconoscendole come leve strategiche per affrontare le sfide future. Dalla vigna 4.0 alla tracciabilità blockchain, fino all’e-commerce e al marketing digitale, l’innovazione pervade ormai tutte le fasi della filiera.
Agritech e viticoltura di precisione
In vigneto l’adozione di strumenti hi-tech rientra nel paradigma dell’Agricoltura 4.0, che integra sensoristica, big data e automazione per rendere le coltivazioni più efficienti e sostenibili. Molte aziende italiane, anche di piccole dimensioni, hanno iniziato a utilizzare sistemi di viticoltura di precisione: sensori meteo in campo e sonde nel suolo per monitorare in tempo reale parametri come umidità, temperature, bagnatura fogliare; immagini satellitari o da droni per valutare lo stato vegetativo delle vigne e individuare precocemente stress idrici o attacchi parassitari; macchine irroratrici a rateo variabile, che modulano la distribuzione di fitofarmaci solo dove serve, riducendo l’uso di chimica. Ad esempio, in Friuli e Veneto molti consorzi hanno implementato reti di centraline meteo e modelli previsionali per guidare i trattamenti antiparassitari, diminuendo i trattamenti del 20-30%. In Sicilia, dove la gestione idrica è cruciale, si sperimentano sensori di umidità nel terreno collegati a impianti di irrigazione di soccorso, per ottimizzare l’uso dell’acqua (diventata un fattore critico con i cambiamenti climatici). Tecnologie come i droni agevolano il monitoraggio di vaste superfici e persino trattamenti mirati in zone collinari impervie, mentre trattori e vendemmiatrici di ultima generazione sono dotati di GPS e autopilota per operazioni precise e raccolta di dati. Tutto ciò consente un approccio scientifico alla gestione del vigneto: si passa dalla media aziendale all’intervento sito-specifico, pianta per pianta, se necessario. I benefici sono duplici: da un lato si riduce l’impatto ambientale (meno sprechi di acqua, carburante, sostanze chimiche), dall’altro si migliora la qualità delle uve (grazie a interventi tempestivi e calibrati, si preserva meglio la sanità dei grappoli). Nonostante i costi iniziali, sempre più viticoltori riconoscono che l’innovazione agronomica è indispensabile per adattarsi a un clima meno prevedibile: “un approccio corretto alla gestione dell’acqua nel vigneto è oggi più che mai fondamentale… l’irrigazione non può più essere solo di soccorso, ma va pianificata in modo sostenibile e con competenza”, sottolineava un convegno tecnico nel 2023, evidenziando il contributo di ricerca e nuove tecnologie nel rendere i vigneti più resilienti. Anche la ricerca vivaistica italiana è all’avanguardia: si sono selezionati nuovi portainnesti M resistenti alla siccità (progetto Winegraft con l’Università di Milano), che hanno mostrato performance superiori ai portainnesti tradizionali durante la torrida estate 2022. Questo è un esempio di innovazione “di prodotto” che, unito all’agricoltura di precisione, aiuterà la viticoltura italiana a fronteggiare stress climatici futuri.
Digitalizzazione, blockchain e tracciabilità
Sul fronte della digitalizzazione dei processi e della tracciabilità, il settore vitivinicolo sta facendo passi da gigante per migliorare l’efficienza gestionale e offrire maggiori garanzie al consumatore. Molte cantine hanno introdotto sistemi gestionali informatici integrati per monitorare tutte le fasi produttive: dalla registrazione dei conferimenti uve (con dati su provenienza, grado, qualità) alla tracciatura di ogni lotto di vino in affinamento, fino alla logistica di magazzino e vendite. Questo consente un controllo puntuale della filiera interna e facilita le certificazioni di qualità (ISO, BRC, ecc.). Ma l’aspetto forse più innovativo è l’applicazione della blockchain al vino: attraverso questa tecnologia di registro distribuito è possibile memorizzare in modo immodificabile tutte le informazioni salienti sulla “storia” di una bottiglia – dalla vigna alla scaffale – e renderle consultabili ai clienti via QR code o app. In Italia sono nati progetti pilota di Wine Blockchain: ad esempio, la cantina pugliese Placido Volpone è stata la prima al mondo a tracciare l’intera filiera in blockchain nel 2023. Ogni bottiglia ha un QR code che, scansionato, mostra al consumatore dati certificati su varietà utilizzate, luogo e data di vendemmia, processi di vinificazione, analisi di laboratorio e persino l’impronta carbonica del processo produttivo. L’obiettivo è offrire massima trasparenza e autenticità, contrastando fenomeni di contraffazione (un problema concreto soprattutto per vini pregiati oggetto di falsificazioni). Anche colossi come Ernst & Young hanno collaborato a piattaforme blockchain del vino, segno che si intravedono concrete applicazioni su larga scala. In prospettiva, il consumatore potrà verificare con lo smartphone se un vino DOCG è autentico, semplicemente confrontando i dati sulla blockchain con l’etichetta. Oltre alla tracciabilità, la digitalizzazione investe anche il lato burocratico: ormai molte pratiche (dichiarazioni di produzione, registri di cantina, richieste di contributi) sono gestite tramite portali online (es. il sistema informativo SIAN). Questo riduce tempi e errori, anche se per piccole aziende poco avvezze alla tecnologia rappresenta una sfida (da qui l’importanza della formazione e assistenza informatica in ambito rurale).
E-commerce e marketing digitale
Come accennato, la vendita online di vino è uno degli ambiti dove la digitalizzazione ha portato più cambiamenti visibili negli ultimi anni. L’e-commerce del vino in Italia ha registrato un vero boom durante la pandemia Covid-19: nel 2020 le transazioni online di vino sono cresciute del +120% circa (in alcuni mesi anche +300% rispetto all’anno precedente), complice la chiusura dei negozi fisici e la necessità per produttori e consumatori di incontrarsi sul web. Aziende come Tannico, Vino.com, Callmewine, Bernabei hanno moltiplicato fatturati, e molti produttori si sono attrezzati con shop online propri o aderendo a marketplace digitali. Nel 2021 la crescita è proseguita (+78% in valore per l’e-commerce wine italiano secondo stime Netcomm) raggiungendo un giro d’affari attorno a 200-300 milioni di euro. Successivamente il trend si è assestato: nel 2023 si stima un leggero calo o stabilizzazione delle vendite online di vino in Italia, dovuto al ritorno dei consumi fuori casa e a una generale incertezza economica. Tuttavia, l’e-commerce rimane ben al di sopra dei livelli pre-2020 e rappresenta ormai circa il 5% del mercato retail del vino italiano (era forse l’1% prima del 2019). Per molte cantine medio-piccole, vendere direttamente al consumatore tramite internet ha aperto canali prima impensabili: oggi un winelover di Milano o New York può ordinare con un click vini da un piccolo produttore dell’Etna o delle Langhe e riceverli a domicilio in pochi giorni. Ciò amplia enormemente la portata commerciale delle cantine artigianali, che però devono sapersi promuovere nel mare magnum del web. Social media marketing e storytelling digitale sono diventati competenze chiave: Instagram, Facebook, TikTok, YouTube ospitano ormai tour virtuali in cantina, video di vendemmia, degustazioni live con produttori. Alcune aziende hanno creato wine club online per fidelizzare la clientela digitale, offrendo sconti e anteprime a chi acquista dal sito. Nel frattempo, i big dell’e-commerce spingono verso la personalizzazione dell’esperienza di acquisto: algoritmi di raccomandazione suggeriscono vini in base alle preferenze dell’utente, box in abbonamento mensile recapitano selezioni ad hoc (il “Netflix” del vino), piattaforme di wine delivery istantaneo consegnano bottiglie fresche a casa in 30 minuti nelle grandi città.
Questo fermento digitale comporta anche nuove sfide: la logistica del vino (pesante, fragile, termolabile) richiede attenzione; inoltre, i margini dell’online possono essere erosi dalle spese di spedizione e commissioni ai marketplace. Ma complessivamente, la digitalizzazione ha reso il mercato del vino più connesso e globale: un produttore italiano può raccogliere feedback diretti dai clienti via e-commerce, adattare la propria offerta in base ai dati di vendita in tempo reale, e raggiungere appassionati in qualunque angolo del pianeta senza passare per i canali tradizionali. In parallelo, i big data provenienti dalle vendite online stanno fornendo insight sui gusti emergenti: ad esempio, l’analisi dei carrelli online ha evidenziato la crescita di interesse per vini bianchi freschi e per bollicine locali, e un calo d’appeal per i rossi corposi, informazioni preziose per orientare la produzione futura.
Innovazione di prodotto e di processo
Oltre agli ambiti citati, l’innovazione nel settore tocca altri aspetti: la ricerca enologica sperimenta tecniche nuove (lieviti autoctoni selezionati, appassimenti controllati, micro-ossigenazione in cantina, nuovi contenitori come anfore o legni alternativi) per affinare la qualità sensoriale dei vini. Alcune cantine stanno adottando la realtà aumentata sulle etichette (etichette interattive che mostrano video o info aggiuntive inquadrandole con lo smartphone). Sul fronte del controllo qualità, ci sono progressi nei sistemi di analisi rapida dei mosti e vini (spettrometria NIR, biosensori) per intervenire tempestivamente in cantina. L’Intelligenza Artificiale (AI) comincia a trovare applicazione sia nella viticoltura (modelli predittivi per rese e infestazioni, analisi immagini per riconoscere carenze nutritive) sia nel marketing (AI chatbots per consigliare vini ai clienti sui siti).
Un’altra area in sviluppo è l’economia circolare in cantina: nuove soluzioni tecnologiche permettono di valorizzare i sottoprodotti (vinacce e feccie) estraendo polifenoli da usare in cosmesi o integratori, biogas da scarti organici per autoalimentare l’azienda, compost dai residui per concimare i vigneti. Questo oltre a ridurre l’impatto ambientale apre nuove linee di business.
In sintesi, l’innovazione nel vino italiano è pervasiva: secolo dopo secolo il settore si è rinnovato (dalle botti romane alle vasche d’acciaio contemporanee) e oggi più che mai deve farlo per combinare qualità, sostenibilità e competitività. La sfida è adottare le tecnologie senza snaturare l’anima artigianale e territoriale del vino. Fino ad ora l’Italia è riuscita in questo equilibrio: ad esempio usando droni in vigneto ma continuando la vendemmia manuale selezionando i grappoli migliori; oppure tracciando in blockchain un vino ottenuto comunque da antichi vitigni locali. Questa capacità di integrare tradizione e innovazione è la chiave per traghettare la vitivinicoltura italiana nel futuro, mantenendola ai vertici mondiali.
Sfide Attuali del Settore Vitivinicolo Italiano
Nonostante i numerosi punti di forza, il comparto vitivinicolo italiano si trova ad affrontare sfide complesse e globali che ne mettono alla prova la resilienza. Tra queste emergono i cambiamenti climatici e la gestione delle risorse, le turbolenze del commercio internazionale (dazi e concorrenza), nonché l’evoluzione socio-economica che impone nuovi modelli di business. Vediamo nel dettaglio le principali criticità odierne.
Cambiamenti climatici e gestione delle risorse idriche
Il clima sta cambiando rapidamente e la vite, pianta perenne sensibile alle condizioni meteo, ne risente in modo significativo. Le anomalie climatiche registrate negli ultimi 20 anni in Italia includono: innalzamento delle temperature medie, con anticipazione di 1-3 settimane delle fasi fenologiche (germogliamento, invaiatura, maturazione); estati più calde e siccitose, con ondate di calore prolungate come nel 2017, 2021 e 2022 che hanno messo in stress idrico molti vigneti soprattutto al nord; eventi estremi più frequenti, come violente grandinate, nubifragi improvvisi o gelate tardive (es. la gelata di aprile 2017 che devastò germogli in Toscana e Emilia, o quelle del 2021 in Francia e Italia). Tutto ciò crea instabilità nelle rese e qualità: si alternano annate molto scarse ad altre super-abbonanti, difficili da gestire sul mercato; inoltre, la maturazione accelerata porta spesso a uve con eccesso di zuccheri (e quindi vini troppo alcolici) e acidità più basse, modificando lo stile tradizionale di certi vini. Alcune zone già calde rischiano di diventare marginali per la viticoltura di qualità, mentre zone un tempo fresche vedono oggi maturare bene uve che prima faticavano (es. zone montane o più a nord).
La questione cruciale legata al clima è la risorsa idrica. Molti vigneti italiani storicamente non erano irrigui (soprattutto nelle DOC collinari di prestigio si evitava l’irrigazione, permessa solo come “soccorso” in casi estremi). Ora la siccità ricorrente sta imponendo un cambio di paradigma: “l’irrigazione del vigneto è diventata una pratica colturale diffusa, ma va realizzata in maniera sostenibile… non può più essere considerata solo emergenziale” affermano gli esperti. In regioni come la Sicilia, la Puglia o la Toscana meridionale, senza un apporto idrico estivo il rischio di perdere il raccolto è concreto. Si stanno quindi realizzando investimenti in bacini di accumulo, laghetti aziendali, impianti di irrigazione a goccia nei filari e sensori per il deficit idrico controllato. La sfida è fornire l’acqua necessaria senza sprechi: tecniche di irrigazione di precisione e deficit idrico controllato vogliono dare poca acqua ma al momento giusto, evitando stress irreversibili ma anche eccessi che diluirebbero la qualità. Allo stesso tempo, c’è attenzione a pratiche agronomiche conservative: lavorazioni ridotte del suolo per mantenere umidità, inerbimenti controllati, pacciamature organiche tra i filari per ridurre evaporazione. La ricerca pubblica e privata è attivissima su questo fronte (nuovi portainnesti resistenti alla siccità, varietà più tolleranti al caldo, tecniche di potatura lunga per proteggere i grappoli, ecc.). I Consorzi di tutela e le regioni stanno anche aggiornando i disciplinari: alcune denominazioni iniziano a prevedere l’irrigazione di soccorso come pratica ammessa (prima era tabù), e si discute se autorizzare nuovi vitigni più adatti ai climi attuali pur non essendo tradizionali della zona.
Un altro effetto del clima è sulla geografia viticola: aree collinari di alta quota un tempo troppo fredde ora risultano interessanti (si pensi ai vigneti sull’Etna fino a 800-1000 m slm, o ai nuovi impianti in Valtellina a quote maggiori). Viceversa, alcune pianure roventi potrebbero riconvertirsi a cultivar diverse o ad altri usi. Questo adattamento geografico sarà graduale ma già visibile: i confini delle zone vocate si stanno espandendo in altitudine e latitudine. Da un lato ciò offre opportunità (nuovi territori del vino nell’Appennino centrale, in Alto Adige altissimo, ecc.), dall’altro minaccia denominazioni storiche (ad es. in zone del Meridione dove il calore eccessivo brucia gli aromi).
In definitiva, la sfida climatica per il vino italiano è duplice: adattamento (adottare misure per continuare a produrre uve di qualità nel mutato contesto) e mitigazione (ridurre l’impatto ambientale della filiera, contribuendo a contrastare il cambiamento). Sul secondo fronte, molte cantine puntano su sostenibilità energetica, riduzione emissioni e cattura di CO₂ nei suoli, anche sfruttando finanziamenti dedicati (vedi PNRR). La consapevolezza è alta: il futuro del vino italiano dipende dalla capacità di conservare l’equilibrio vigneto-ambiente. Come ha ribadito Confagricoltura, “il futuro dei vigneti dipende da un uso dell’acqua innovativo e sostenibile”. L’intera filiera, incluso il sistema finanziario, è chiamata a supportare gli investimenti per la resilienza climatica (ad esempio Crédit Agricole ha lanciato linee di credito “green” e promuove strumenti come il pegno rotativo sui vini per dare liquidità alle aziende colpite da calamità). Sarà una corsa contro il tempo, ma il settore vitivinicolo ha dimostrato nei secoli capacità di adattamento e, con l’aiuto dell’innovazione, potrà fronteggiare anche questa sfida.
Dazi, mercati esteri e concorrenza globale
Sul versante economico-commerciale, il vino italiano deve navigare in un contesto internazionale spesso turbolento. Un esempio lampante è stato quello dei dazi USA: nel 2019-2020 l’amministrazione statunitense minacciò e in parte impose dazi aggiuntivi fino al 25% sui vini europei (nell’ambito della disputa Airbus-Boeing). L’Italia, inizialmente risparmiata nella prima tornata di dazi (che colpirono maggiormente Francia, Spagna e Germania), è finita nel mirino per possibili tariffe punitive estese a tutti i vini UE. Si parlava di aumenti fino al 100% del prezzo, uno scenario catastrofico per le cantine tricolori considerando che gli USA importano annualmente circa 1,9 miliardi € di vino italiano (oltre il 30% dell’export a valore). Le associazioni di settore stimavano perdite dirette di fatturato sui 300-470 milioni di € l’anno in caso di dazio 25% sui vini italiani, e invocavano interventi diplomatici urgenti. Fortunatamente, a metà 2021 è giunto l’accordo UE-USA che ha scongiurato la guerra dei dazi: le due potenze hanno concordato la sospensione reciproca di tutti i dazi aggiuntivi sui prodotti agroalimentari (vino incluso) per 5 anni , risolvendo la controversia. Ciò ha portato sollievo al settore vinicolo italiano, che ha potuto continuare ad esportare in America senza rincari artificiali. Resta però la lezione: la dipendenza da mercati esteri espone le nostre aziende a rischi geopolitici e barriere tariffarie. Oggi le incertezze permangono, tra Brexit (che ha complicato leggermente l’export verso il Regno Unito con nuove pratiche doganali) e tensioni con la Russia (dove nel 2022-23 l’export di vino è crollato a causa delle sanzioni e del contesto bellico). Diversificare i mercati diventa fondamentale: organizzazioni come Unione Italiana Vini spingono a esplorare sbocchi alternativi in Asia e Sud America proprio per ridurre l’eccessiva esposizione verso pochi paesi.
Un’altra sfida è la concorrenza globale sempre più agguerrita. Se fino a 30 anni fa i principali competitor erano gli altri paesi europei (Francia e Spagna in primis), oggi ci sono i vini del Nuovo Mondo: Stati Uniti, Australia, Cile, Sudafrica, Nuova Zelanda, Argentina hanno conquistato importanti quote di mercato internazionale, soprattutto nella fascia dei vini varietali di prezzo medio. Questi paesi beneficiano di economie di scala, approcci industriali molto efficienti e meno vincoli produttivi (vigneti in aree vaste e meccanizzabili, denominazioni meno stringenti, ecc.), riuscendo a proporre vini con un ottimo rapporto qualità-prezzo in segmenti dove l’Italia fatica a competere sui costi. Ad esempio, nei mercati asiatici emergenti i vini cileni e australiani hanno spesso tariffe preferenziali (grazie a trattati di libero scambio) e posizionamenti aggressivi, erodendo spazio ai vini italiani entry-level. La concorrenza interna all’UE resta poi forte: la Spagna è diventata il primo esportatore mondiale per volume, dominando il mercato del vino sfuso a basso prezzo e insidiando l’Italia anche su alcune tipologie (es. spumanti Cava vs Prosecco nei mercati price-sensitive). La Francia, dal canto suo, mantiene una leadership di immagine e valore: pur producendo meno ettolitri, realizza introiti superiori (oltre 11 miliardi € export nel 2022, vs ~8 dell’Italia) grazie a brand prestigiosi e prezzi medi molto alti. L’Italia deve quindi giocare su più fronti: consolidare il segmento premium (dove abbiamo ancora potenziale di crescita in valore, visto che i nostri top wines costano mediamente meno dei francesi) e difendere il segmento medio-basso puntando sulla distintività (autoctoni, lifestyle italiano) anziché sul prezzo.
Un altro aspetto della concorrenza è l’imitazione e l’usurpazione dei nomi: vini italiani famosi subiscono tentativi di contraffazione o uso illegittimo del nome in giro per il mondo. Esempi noti: il “Prosecco” australiano (che rivendicava l’uso del termine considerandolo generico, disputa poi vinta dall’UE che ha riconosciuto Prosecco come DO italiana esclusiva) o i vari “Tuscan sounding” (chianti californiani, barbera argentini, etc.). La tutela legale delle nostre denominazioni nei trattati internazionali è un lavoro costante e dispendioso, ma fondamentale per proteggere il valore costruito. Su questo si registrano vittorie (es. il recente accordo UE-Cina che tutela 26 DO italiane in Cina) ma anche battaglie aperte (vedi il caso del nome “Prosek” croato, contestato dall’Italia in sede UE perché troppo simile a Prosecco).
Dal lato competitivo interno, il settore è anche sfidato dai cambiamenti nella domanda mondiale: il consumo pro-capite di vino è in calo in molti paesi tradizionali (Francia, Spagna) e cresce in mercati nuovi ma con preferenze differenti (Asia predilige rossi morbidi e dolci, Nord Europa vini bianchi secchi e bio, ecc.). L’Italia deve quindi sapersi adattare ai gusti di mercati eterogenei senza perdere la propria identità. In questo riesce bene quando propone ad esempio spumanti aromatici dolci in Russia (Moscato d’Asti molto apprezzato) o rossi senza tannini aggressivi negli USA (tagli appositi per quel mercato). Tuttavia, occorre investire in promozione e education: far conoscere al mondo le centinaia di vitigni e denominazioni italiane meno note è uno sforzo impegnativo. I fondi OCM promozione (vedi sezione successiva) sono stati cruciali per presidiare mercati come USA, Canada, Cina con azioni di comunicazione coordinate.
Infine, la concorrenza si manifesta anche sul piano delle altre bevande: i giovani oggi hanno molte alternative (birre artigianali, distillati premium, cocktail pre-batched, hard seltzer, ecc.). Il vino deve difendere la sua quota nel beverage totale innovando l’immagine e mantenendosi “trendy”. La sfida generazionale è non perdere i consumatori 20-30enni, che potrebbero non avvicinarsi mai al vino se lo percepiscono come antiquato o poco accessibile. Ecco quindi che i produttori italiani sperimentano packaging moderni, comunicazione informale, vini più easy to drink, proprio per competere nel “mercato del tempo libero” contro birre e cocktail.
In sintesi, sul fronte competitivo l’Italia deve: lavorare diplomaticamente per mercati aperti e condizioni eque (no dazi, tutela DO), differenziare i mercati di sbocco, puntare su qualità e identità per non farsi schiacciare sui prezzi, e al contempo rendere il vino attraente per le nuove generazioni. È una sfida impegnativa, ma i record di export degli ultimi anni mostrano che il vino italiano gode di ottima salute internazionale, frutto di una competitività intrinseca costruita su varietà, territorio e rapporto qualità/prezzo difficilmente eguagliabili.
Sostegni e Bandi Pubblici per il Settore Vitivinicolo
Il settore vitivinicolo italiano beneficia da tempo di diversi strumenti di sostegno pubblico, sia a livello nazionale che europeo, volti a favorirne lo sviluppo, la competitività e la sostenibilità. In questa sezione analizziamo i principali programmi di finanziamento (i cosiddetti bandi) dedicati al comparto, suddivisi in due macro-categorie: il Piano Nazionale di Sostegno del vino (PNS) nell’ambito dell’OCM vino dell’Unione Europea, e le misure dei Programmi di Sviluppo Rurale (PSR) cofinanziate dal Fondo Europeo Agricolo per lo Sviluppo Rurale (FEASR), gestite dalle regioni. Inoltre, cenneremo ad altre iniziative pubbliche rilevanti.
Il Piano Nazionale di Sostegno (OCM Vino)
L’OCM Vino (Organizzazione Comune di Mercato del settore vitivinicolo) è il quadro normativo UE che stanzia fondi specifici per il vino nei vari paesi membri. L’Italia, in quanto principale produttore europeo, è il maggior beneficiario di tali fondi. Dal 2008 l’OCM vino prevede che ogni Stato elabori un Piano Nazionale di Sostegno (PNS) articolato in una serie di misure finanziate con budget UE dedicato. Per il periodo recente, l’Italia ha avuto a disposizione circa 320-330 milioni di euro all’anno di fondi OCM vino da spendere in diverse azioni. Le principali misure OCM attivate nel PNS italiano sono:
Ristrutturazione e riconversione dei vigneti: contributi ai viticoltori per reimpiantare vigneti obsoleti con nuovi impianti, magari cambiando varietà o sistema di allevamento, oppure spostare vigneti da aree poco adatte a zone più vocate. È una misura cardine che ha permesso negli ultimi 15 anni di ringiovanire il potenziale viticolo italiano, migliorandone la qualità e adeguandolo alla domanda di mercato. Ogni anno vi sono bandi regionali che rimborsano fino al 50% dei costi di estirpo e reimpianto (in alcuni casi con premio per mancata produzione nelle annate intermedie). Nella campagna 2023/2024 a questa misura erano destinati 144,1 milioni di €, la voce più dotata del PNS (circa il 45% del totale). Dal 2010 a oggi, decine di migliaia di ettari di vigneto in tutta Italia sono stati rinnovati grazie a tali contributi, con benefici in termini di qualità delle uve, meccanizzazione, impiego di portainnesti resistenti, ecc.
Promozione sui mercati dei Paesi terzi: contributi (fino al 50% delle spese) per progetti di promozione del vino italiano fuori dall’UE, ossia in mercati extra-europei (USA, Cina, Canada, Giappone, ecc.). Possono beneficiarne consorzi, associazioni di produttori o aziende singole presentando progetti di durata 1-3 anni che comprendano attività come partecipazione a fiere internazionali, degustazioni, campagne pubblicitarie, incoming di operatori esteri in Italia, etc.. Dal 2010 questa misura ha mobilitato decine di milioni all’anno: ad esempio nel 2023/24 erano allocati 98 milioni di € (68,6 mln gestiti dalle Regioni per progetti regionali e 29,4 mln a livello nazionale). Ciò ha permesso di cofinanziare le attività promozionali di molti consorzi e gruppi export, contribuendo all’aumento record dell’export italiano (ricordiamo le parole del Ministro Martina nel 2016: *“Nei prossimi 3 anni investiremo 300 ... 2016: “Promuovere al meglio il nostro vino sui mercati internazionali è una priorità assoluta. Nei prossimi 3 anni investiremo 300 milioni di euro [...] abbiamo dimezzato il divario dalla Francia” dichiarava l’allora Ministro Martina quando fu approvato un rifinanziamento della misura. I risultati di questa iniezione di risorse si sono visti negli anni seguenti con export in costante crescita.
Un’altra misura OCM importante è gli Investimenti in cantina, che cofinanzia l’ammodernamento delle strutture di vinificazione, stoccaggio e confezionamento (es. nuovi impianti di pressatura, serbatoi, barricaie, attrezzature informatiche). Nel 2023/24 erano stanziati 57,6 milioni € per questa misura】. Vi sono poi misure minori come la Distillazione dei sottoprodotti (fondi per trasformare vinacce e feccia in alcool, evitando sprechi e inquinamento, con 19,2 milioni € nel 23/24) e la Vendemmia verde (indennizzo per l’eventuale distruzione anticipata di uva per ridurre le rese in annate di eccesso, 4,8 milioni € allocati. Complessivamente, l’OCM vino rappresenta un pilastro di sostegno fondamentale: ha finanziato il rinnovo di oltre 70.000 ettari di vigneto dagli anni 2000 a oggi, l’ampliamento o la modernizzazione di centinaia di cantine e permesso al vino italiano di rafforzare la propria presenza sui mercati esteri attraverso campagne di promozione mirate. Ogni anno il Ministero dell’Agricoltura (MASAF) ripartisce questi fondi tra regioni e soggetti attuatori tramite decreti e bandi: attualmente () sono attivi bandi per progetti di promozione nei paesi terzi e per investimenti innovativi in cantina, con procedure semplificate per l’accesso ai contributi come annunciato dallo stesso Ministero.
Accanto al PNS vino, le aziende possono beneficiare dei Programmi di Sviluppo Rurale (PSR) finanziati dal FEASR. Pur non essendo misure specifiche per il vino, molti bandi PSR regionali riguardano anche i viticoltori. Ad esempio: le misure agro-ambientali offrono pagamenti compensativi per metodi bio o integrati (incentivando la conversione al biologico con premi ad ettaro); le misure di investimento nei PSR cofinanziano la costruzione di fabbricati aziendali, punti vendita, sale degustazione o agriturismi vitivinicoli, nonché l’acquisto di macchinari agricoli avanzati (trattori a basso impatto, spandisolfi di precisione, ecc.); i progetti integrati di filiera e i contratti di rete possono ottenere contributi se aggregano più attori (es. viticoltori, cantine, consorzi) per migliorare la competitività collettiva, ad esempio creando infrastrutture comuni di stoccaggio o marchi territoriali unitari. Inoltre, i PSR finanziano formazione e consulenza tecnica: molti giovani vignaioli hanno frequentato corsi sull’uso dei droni o sulla vinificazione naturale grazie a voucher formativi del PSR. Nel periodo 2014-2020 centinaia di imprese vitivinicole hanno beneficiato di questi strumenti nelle varie regioni. Ad esempio, in Veneto il PSR ha supportato la nascita della Rete Innovativa Vinivery per la digitalizzazione delle cantine; in Toscana misure specifiche hanno aiutato aziende del Chianti a installare pannelli solari e sistemi di fitodepurazione in cantina; in Sicilia il PSR ha cofinanziato progetti per valorizzare vitigni autoctoni rari come il Perricone.
Anche a livello nazionale ci sono stati bandi mirati: i “Contratti di Filiera” finanziati dal Ministero (con fondi nazionali e del Fondo Sviluppo e Coesione) hanno visto includere progetti vitivinicoli (es. filiera del Prosecco, filiera dei vini autoctoni del Sud) con contributi in conto capitale e finanziamenti agevolati. Nel 2022 è stato approvato un pacchetto di 40 milioni € dal fondo complementare al PNRR dedicato al settore vitivinicolo per sostenere investimenti innovativi, in particolare sul fronte della sostenibilità e dell’export. Inoltre, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) ha misure trasversali da cui il vino può attingere: ad esempio il “Parco Agrisolare” per l’installazione di pannelli fotovoltaici sui tetti di aziende agricole (molte cantine stanno aderendo per autoprodurre energia verde), o i fondi per la digitalizzazione delle imprese agroalimentari. Ci sono poi i bandi dei Piani di Sviluppo Locale (Leader) gestiti dai GAL, che in alcune aree hanno finanziato piccole iniziative di enoturismo, musei del vino, percorsi didattici nelle vigne. Infine, non vanno dimenticati i fondi per la promozione del Made in Italy gestiti da ICE e SIMEST: le cantine possono ottenere cofinanziamenti per partecipare a fiere extra-UE o usufruire di finanziamenti a tasso zero per l’internazionalizzazione.
Per quanto riguarda i bandi attualmente aperti (2025), oltre ai già citati bandi OCM 2024/25 (promozione e investimenti) e ai nuovi bandi PSR 2023-2027 di ciascuna Regione, segnaliamo: il Bando “Promozione Vini DOP/IGP nei mercati dei paesi terzi 2024” emanato dal MASAF, il Bando ISI-Inail Agricoltura 2024 che offre incentivi per miglioramenti in sicurezza nelle aziende agricole (valido anche per cantine), e diversi bandi regionali per l’agricoltura di precisione e l’agriturismo vitivinicolo. Ad esempio, la Regione Piemonte ha aperto nel 2024 un bando per “Innovazione digitale nelle imprese vitivinicole” con contributi fino a 40% per dotarsi di software gestionali e sensoristica; la Regione Sicilia ha attivo un bando PSR sulla ristrutturazione dei vigneti nelle isole minori per salvaguardare eroiche viticolture (come Pantelleria e Salina).
In conclusione, il settore vitivinicolo italiano è sostenuto da un ecosistema di politiche pubbliche che ne hanno accompagnato la crescita e la trasformazione qualitativa negli ultimi decenni. Dalla ricostruzione post-fillossera ai giorni nostri, istituzioni nazionali ed europee hanno investito risorse importanti: questi bandi hanno aiutato le aziende a innovare, internazionalizzare e affrontare momenti difficili (come le distillazioni di crisi finanziate durante la pandemia per smaltire invenduto). L’accesso efficace ai fondi – unito all’intraprendenza imprenditoriale – ha contribuito a fare del vino un fiore all’occhiello dell’economia italiana. Le sfide future (clima, mercati, concorrenza) richiederanno ancora supporto: sarà essenziale impiegare al meglio i fondi del nuovo periodo 2023-2027 puntando su sostenibilità ambientale, innovazione tecnologica e aggregazione di filiera. Solo così il settore potrà mantenere quella competitività e autorevolezza che oggi lo contraddistinguono a livello globale.
Fonti